Massimo Mapelli
Persi nella nebbia della pandemia: la “seconda ondata” di COVID-19
Milano, Ottobre 2020. Mercoledì scorso è morto E.C., fratello comboniano nato sulle Dolomiti 74 anni fa, in Uganda da più di 40. Era un mio amico. La notizia è arrivata alla fine del mio turno nel reparto COVID-19, via SMS. Ho stretto gli occhi per leggere quelle poche parole, offuscate da strati trasparenti: la pellicola di plastica attorno al telefono, l’ingombrante visiera protettiva e, infine, i miei occhiali appannati dal respiro pesante sotto la doppia maschera protettiva. E. si era ammalato un mese prima. Inizialmente è stato curato a casa all’interno dell’ospedale in cui viveva – centro no-profit con 600 letti in Uganda che aveva letteralmente costruito con le sue stesse mani. Poi è stato trasportato in un rocambolesco viaggio in jeep con la valvola della bombola di ossigeno completamente aperta fino all’ospedale di Kampala, 400 km a sud. Nonostante le cure, è improvvisamente peggiorato fino alla morte. Allo stesso tempo, 5000 Km a nord, un paziente di 79 anni ricoverato da pochi giorni con una polmonite COVID-19 non complicata, che fino a poco prima respirava in aria ambiente, è stato intubato per un’improvvisa crisi respiratoria. È morto 24 ore dopo. Il giorno prima avevo chiamato il figlio, dicendogli che stava migliorando. Dopo un’estate in cui le misure di contenimento del contagio si sono allentate, l’Italia, in particolare Milano, sta affrontando in queste settimane una terribile seconda ondata pandemica.
Gli ospedali sono tornati sotto pressione e gli operatori sanitari, ancora fisicamente e psicologicamente provati, si sono ritrovati attori di un brutto film che non volevano più vedere.
Come in un copione beffardo, questa ondata ampiamente annunciata ci ha trovati impreparati, al pari di una nebbia improvvisa al calar della notte. In mezza giornata, con i pronto soccorso già invasi dalle polmoniti, una parte del mio reparto, Unità Scompenso Cardiaco di un centro di riferimento, è stata isolata con pannelli di gesso e adesivi di rischio biologico. A differenza della prima fase della pandemia, ci è voluto molto più tempo a trovare personale volontario per la nuova area COVID-19. Ogni mattina porto mio figlio all’asilo, per evitare il panico dico che il nostro ospedale, dedicato alla cardiologia, è risparmiato dal COVID-19. Poi mi vesto come un palombaro e passo il turno ad alzare l’ossigeno ai pazienti per cercare di farli stare meglio, senza successo.
Alcuni colleghi si sono ammalati; oltre alla paura del contagio l’entusiasmo è smorzato dal numero crescente di turni. Nell’atmosfera ovattata dai DPI, si consumano storie da inferno dantesco. Un paziente affetto da S. di Down ha disegnato un cuore rosso per sua madre a casa; due giorni dopo l’ha trovata ricoverata accanto a lui in insufficienza respiratoria. Ora stanno entrambi migliorando, sollevati dall’essere insieme. Un ex calciatore professionista è stato trasferito in un altro centro dove la sua gamba sarà amputata. Dall’altra parte della porta a vetri che chiude ermeticamente il reparto, continuiamo a testare i pazienti della “prima ondata” a 6 mesi dalla dimissione. I primi dati sono rassicuranti, diciamo a quelli ancora a letto per infondere ottimismo.
Innescati da alcuni politici e dalla disinformazione, ogni giorno i parenti dei pazienti ci chiedono perché non diamo loro idrossiclorochina e plasma iperimmune. Mio padre, medico di medicina generale vicino alla pensione, come molti medici ambulatoriali abbandonati dal sistema sanitario, ha esteso l’orario di visita e riceve i pazienti con le finestre aperte nonostante il freddo per ridurre la carica virale nell’aria. La sera tutti aspettano il bollettino dei contagi e decessi, ancora in aumento nonostante il lockdown. Il cellulare squilla continuamente con aggiornamenti di conoscenti e familiari a casa con la febbre.
Durante il duro lockdown di marzo, i TG alternavano la paura a sentimenti di solidarietà e fiducia per medici e ospedali; ora la metà lascia spazio ai “no-mask” che sostengono pubblicamente che la pandemia è tutta una bufala. Nel centro di Milano, un murales dedicato a medici e infermieri in prima linea è stato imbrattato e la settimana scorsa un’ambulanza è stata attaccata dai negazionisti. Nell’Africa subsahariana, a due passi dall’equatore, la nebbia non è un fenomeno frequente, ma quando arriva lascia tutti sgomenti. Il fratello E. fa parte della storia del nord dell’Uganda. Ha combattuto ribelli, malaria, persino ebola. L’ultima volta che gli ho parlato, all’ombra di un albero nell’orfanotrofio che ha costruito vicino all’ospedale, mi ha raccontato di quando un elefante ha attaccato la sua jeep. Quella volta è sopravvissuto per miracolo. Ci ha pensato un virus infinitamente più piccolo, partito da un mercato cinese, atterrato in Europa su un aereo di linea e ora diffuso ovunque. Sono le 4 del pomeriggio; a quest’ora ad aprile i balconi erano pieni di gente che batteva le mani e cantava per sostenere il nostro Paese. Guardo fuori dalla finestra, ma vedo solo la nebbia.